Le parole dell’obesità: cosa facilita e cosa ostacola i percorsi di gestione del peso – PARTE I: cosa ne pensano i pazienti
Ci sono casi, e l’obesità è uno di questi, in cui il successo terapeutico è legato a doppio filo a un cambiamento ampio e costante di abitudini consolidate, un cambiamento complesso che solo il paziente può, infine, decidere di agire o di non agire.
Una decisione terza, quindi, che tuttavia ricade ancora nel perimetro di azione di medici e curanti, i quali, per indirizzarla al meglio, possono avvalersi di competenze specifiche e, soprattutto, di ciò che i diretti interessati – i pazienti – ritengono la vera chiave.
La parola.
Sulle “parole dell’obesità”, e sulle preferenze e difficoltà di pazienti e curanti, si dispone oggi di vasta letteratura scientifica, con analisi dei significati che le diverse scelte sottendono e delle possibili ricadute terapeutiche.
L’ampiezza del contesto ha richiesto indagini specifiche per i diversi ruoli – professionisti della salute, pazienti o loro caregiver (ad esempio genitori di pazienti pediatrici) – e per le diverse fasce d’età delle persone con obesità.
I risultati, in larga parte consensuali tra i vari studi, ruotano a vario titolo intorno a un concetto unificante: la necessità di non incorrere nel “weight labelling”, ovvero di dissociare la condizione di obesità dalla persona che ne è affetta.
Il che non significa deresponsabilizzare i singoli individui, ma toglierli da una diffusa “narrativa di colpevolizzazione”, come la definisce Tim Lobstein, Policy Director della World Obesity Federation, in un editoriale su Nature Human Behaviours.
Narrativa che alimenta lo stigma sociale legato all’obesità, e che rischia pertanto di minare la possibilità di partecipazione attiva del paziente lungo il percorso individuato.
Perché il paziente agisca il proprio iter terapeutico, infatti, è fondamentale che egli non si identifichi né si senta identificato dalla propria condizione.
“Abbiamo fatto grandi passi avanti nella riduzione delle malattie legate al tabacco e stiamo iniziando a invertire la tendenza per quanto riguarda l’uso nocivo di alcol” – osserva Lobstein. “L’obesità ha bisogno di un approccio simile e un cambiamento di mentalità ancora maggiore, ma attualmente il linguaggio e le immagini, che suggeriscono una colpevolizzazione individuale, non fanno altro che peggiorare la situazione”
Come prerequisito, quindi, non parleremo di obesi, ma di persone con obesità, o – ancora meglio, come vedremo – di persone con un peso superiore a quello sano.
Ci invitano a farlo i risultati di un’estesa indagine pubblicata nel 2021 su Current Obesity Report, in cui il termine “obeso” risulta di ostacolo al coinvolgimento dei pazienti, trasversalmente rispetto all’età.
Ad esprimersi in maniera più esplicita sono in particolare gli adolescenti e i genitori dei pazienti pediatrici, che aggiungono alla lista gli aggettivi grasso e grosso, e anche – per madri e padri soprattutto – il più neutro “sovrappeso”.
Cosa li rende, invece, più partecipi?
Gli adolescenti si dichiarano maggiormente a proprio agio, maggiormente coinvolti quando il focus è spostato sul peso, cui si attribuisce in genere una natura più transitoria e modificabile. In linea con l’età, inoltre, si sentono partecipi se si parla a loro come individui, con contenuti che li riguardino in maniera personale. Niente asserzioni generiche o argomenti “per tutti”. In questo senso, spostare il focus sul peso acquista ancor più efficacia quando non viene valutato come elemento a sé, ma collegato a un concetto di maggiore rilevanza personale. Perdere peso non come fine, quindi, ma come mezzo per migliorare il tuo individuale stato di salute.
Di parere analogo i genitori di pazienti pediatrici, che trovano più agevoli ed efficaci espressioni come “è aumentato troppo”, o la più articolata “ha acquistato troppo peso per sua salute”, che ancor più evidenziano la transitorietà della condizione e ne collegano l’interesse a un obiettivo più alto.
Anche i pazienti adulti dichiarano di preferire un focus su elementi oggettivi, più lontani dal giudizio: invece che di grassezza, obesità o grasso in eccesso, ad esempio, si sentono coinvolti se si parla di numeri, come il valore del peso o dell’indice di massa corporea (IMC). Quest’ultimo non è invece gradito ai bambini, che non si trovano a proprio agio con termini tecnici con cui non possono avere familiarità alcuna, come IMC, appunto, ma anche come adiposità o obesità clinica.
Il ricorso a un lessico specifico, tuttavia, è spesso utilizzato nei dialoghi sull’obesità perché può adeguatamente rispondere a un altro bisogno, avvertito dall’altro fondamentale interlocutore: il bisogno di accuratezza di medici e curanti, che possono essere portati a identificare questo tipo di accuratezza con la chiarezza che vogliono giustamente offrire al paziente. Senza necessariamente poter prevedere il reale impatto di questa scelta sulla persona con obesità.
Proseguiremo con questo aspetto, ovvero con il punto di vista del medico, nel prossimo articolo di questa rubrica.
Nel frattempo, ecco i punti principali che abbiamo visto sulla percezione dei pazienti:
In pillole:
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Per approfondire:
Auckburally S et al, The Use of Effective Language and Communication in the Management of Obesity: the Challenge for Healthcare Professionals. Curr Obes Rep (2021), 10(3):274-281
Lobstein T, The language of obesity just makes matters worse. Nat Hum Behav (2018), 2:165